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Leone XIV e la lirica di un nome. Tra Verdi e Prévost

da | 13 Mag 2025 | Cultura e spettacolo

Un Papa in lirica: il predecessore Leone che fermò Attila e l’eco musicale di una scena epocale in Manon Lescaut

La scelta del nome pontificale Leone XIV non è un semplice omaggio alla tradizione. È una scelta densa di significati, un atto teatrale e teologico al tempo stesso. È, come nei grandi libretti d’opera, una dichiarazione di identità, un colpo di scena che rivela la trama nascosta: chi è veramente questo Papa? E che tipo di messaggio vuole comunicare al mondo? Come nella musica, anche nella Chiesa i nomi risuonano, evocano, accendono memorie. E in questo nome – Leone – si sente l’eco di un’antica liturgia del potere spirituale, capace di fermare persino il Flagello di Dio.

Verdi e la scena madre del papato

Giuseppe Verdi ne fece il cuore palpitante della sua opera Attila, composta nel 1846: il momento in cui il Vicario di Cristo, biancovestito, si erge come muraglia morale davanti al conquistatore barbaro. È Leone Magno, il “vecchio romano” del libretto, che avanza tra i canti sacri, preceduto dal Veni Creator, apparizione ieratica e quasi soprannaturale. Attila, terrorizzato, grida di vedere due giganti armati di spade: sono gli apostoli Pietro e Paolo, come nel celebre affresco di Raffaello nella Stanza di Eliodoro. La storia, il mito e l’immaginario teatrale si fondono in un’unica epifania. Leone XIV, oggi, sembra voler riprendere quel gesto: non quello di un sovrano temporale, ma di un’autorità morale che si oppone alla violenza con la sola forza della fede.

Prévost e il dramma morale di Tiberge

Eppure, c’è un’altra figura, più silenziosa ma altrettanto intensa, che risuona sotto il nomee di questo papa. Non un Leone impavido, ma un Tiberge paziente. Nella Manon Lescaut dell’abbé Prévost, Tiberge è l’amico fedele, la voce della Chiesa, che tenta di redimere il cavaliere Des Grieux, innamorato perduto, sconvolto da una passione senza legge per Manon. Tiberge rappresenta la morale che non cede, la parola che guida nel buio, la compassione che non si spezza. È, nel romanzo, il contrappunto morale alla tragedia della caduta.

Nel celebre episodio del romanzo di Prévost ambientato a Saint-Lazare, Tiberge visita Des Grieux incarcerato. Ne nasce un dialogo lacerante: da un lato la voce della ragione e della fede, dall’altro quella della passione amorosa che si dichiara più forte della religione stessa. Dice Des Grieux, la felicità che desidero è vicina, carnale, tangibile. Ma Tiberge non si arrende. Tace, ascolta, soffre, ma resta saldo. Come un pastore che non lascia il suo gregge, anche se questo si allontana nella notte. Ferito, ma non vinto.

Leone XIV tra Leone Magno e Tiberge

In Leone XIV convivono le due anime: quella del Leone che affronta il potere violento con dignità romana, e quella di Tiberge che, con ferma docilità, tenta il riscatto del cuore umano. Da un lato, l’autorità visionaria che Verdi mise in musica, capace di far inginocchiare Attila con uno sguardo. Dall’altro, la perseveranza spirituale di Tiberge, che non giudica ma accompagna, che non condanna ma si fa presente anche nell’infedeltà al Vangelo. È una doppia cifra morale, che unisce forza e misericordia.

L’opera come teologia in scena

Verdi e Prévost mettono in scena due modelli morali. Il primo è epico, il secondo interiore. Il Leone verdiano è l’eroe del diritto divino, icona di una Chiesa trionfante nel suo splendore liturgico. Tiberge, invece, è la voce sommessa della Chiesa nel mondo, la presenza discreta ma tenace che rifiuta di abbandonare anche i più lontani. Se il nuovo Papa si è chiamato Leone, è forse perché sente il peso di entrambe le vocazioni: quella di chi parla ai popoli come una guida forte, e quella di chi, come un confessore, sussurra a un’anima perduta che non è mai troppo tardi.

Una Chiesa che ascolta e combatte: la morale non è debolezza

Nel Leone di Verdi si riconosce l’Italia del 1846, in cerca di unità e salvezza morale. Nel Tiberge di Prévost si specchia un’Europa disillusa, dove la religione non è più trionfo, ma tentativo di redenzione tra le macerie dell’animo. Leone XIV si muove tra queste due immagini, e sceglie – nel nome e nello stile – di abitare la tensione. È il pastore che non scappa. Non il sovrano dei palazzi, ma la sentinella sulle mura, tra le rovine, tra le passioni, tra le colpe. E anche tra i sogni.

La forza del nuovo Papa, come quella del Leone verdiano, è nella presenza scenica. Ma la sua ispirazione profonda sembra legata anche alla pazienza di Tiberge. Una Chiesa che ascolta, anche quando viene insultata. Che resta, anche quando è respinta. Che cerca la verità, anche quando sembra sommersa dal rumore del mondo. 

In questa doppia ispirazione, lirica e spirituale, Leone XIV sembra dire: il pastore non è solo colui che ferma gli eserciti, ma anche colui che non rinuncia a una sola pecora smarrita. Non c’è potenza spirituale senza integrità morale. Non c’è autorità ecclesiale senza compassione vissuta. La scena tra Tiberge e Des Grieux, come quella tra Leone e Attila, mette in gioco tutto: ragione e fede, amore e caduta, misericordia e legge. Sono drammi eterni, che la musica e la letteratura ci aiutano a decifrare.

Un Papa in chiave musicale

Se c’è ancora spazio per una teologia dell’immaginazione, allora Leone XIV è il pontefice che forse saprà far risuonare il suo nome come un’opera. La sua figura, così come quella evocata da Verdi e Prévost, non sarà solo dogma, ma un dramma sacro. È fede che si canta, è morale che si soffre, è verità che si recita sul palcoscenico della storia. E come in ogni grande opera non tutto è risolto, probabilmente non risolverà tutte le questioni aperte. Ma la presenza del Papa, come quella del vecchio romano o del fedele Tiberge, è già una speranza. Una voce che non si spegne. Una musica che ci interroga ancora. 

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