L’atteggiamento di fondo e di fede sull’ospitalità che San Benedetto, proclamato patrono d’Europa da San Paolo VI, tratteggiato nella Regola, si esprime in un passo significativo:“Tutti gli ospiti che arrivano siano accolti come Cristo, poiché egli dirà: “Ero ospite e mi avete accolto (Mt 25,35)”. La scelta di Benedetto si è forgiata in un contesto politico, sociale ed economico di incertezza e profondi cambiamenti; si è forgiata nel nutrimento della parola di Dio e delle testimonianze dei Padri, ma soprattutto sulla sua lunga esperienza di vita monastica. Nel tramonto della gloria di Roma, con i nuovi popoli stabilitisi ormai all’interno dei confini dell’antico Impero, il giovane di Norcia fece riecheggiare la voce del Salmista: “Chi è l’uomo che vuole la vita e desidera vedere giorni felici?”.
Di fronte alle quotidiane tragedie che continuano a verificarsi nel Mediterraneo e lungo le zone di guerra, la soluzione non può venire da una geopolitica emozionale. L’opzione di Benedetto è chiara: accoglienza e ospitalità. “L’ospite e il povero” – scriveva un grande monaco, Evagrio Pontico – “sono il collirio di Dio. Chiunque li accoglie, ben presto ricupererà la vista”. Il monachesimo non ha mai smesso di essere fonte di ispirazione e, di fronte al travolgente fenomeno delle migrazioni, diventato strutturale, oggi può offrire ricette autentiche e integrali, anche se portano con sé una sana carica di provocazione. Come cantava Efrem il Siro: “Vanto dei cristiani è l’accoglienza dei forestieri e la compassione [verso i poveri]. Vanto e salvezza dei cristiani è avere sempre come commensali alla propria tavola poveri, orfani e forestieri, poiché da una tale casa Cristo non si allontanerà mai!”. Non solo il monaco, ma ogni uomo è invitato a essere immagine di Dio anche nell’ospitalità.
In monastero l’arrivo degli ospiti è una benedizione divina: il portinaio li accoglie con le parole “Deo gratias” o “Bénedic” con mitezza e timor di Dio; con queste formule Benedetto indica che è lo straniero che bussa a benedire il monaco. L’ospite è poi circondato dall’abbraccio del rito, attraverso una vera e propria liturgia dell’ospitalità: il superiore e i fratelli si fanno incontro all’ospite, pregano insieme, ci si scambia il segno della pace con un bacio; prima si spezza con l’ospite il pane della preghiera, portandolo all’ufficio divino della comunità, poi ci si siede con lui, ascoltando insieme la lettura delle sacre Scritture. Quindi gli si lavano le mani e i piedi, cosa di cui si incarica l’abate della comunità. Quindi si interrompe il digiuno – figli dello Sposo non possono digiunare finché lo Sposo è con loro – e si canta insieme: “Abbiamo accolto, o Dio, la tua misericordia in mezzo al tuo tempio” (Sal. 47). Sembra un gioco delle parti, ma a beneficiare dell’ospitalità non è il povero, ma è l’intera comunità coinvolta, perché riceve la misericordia del Signore. Come si po’ immaginare, è un vero proprio impegno che costa fatica, in termini di tempo e mezzi materiali. Benedetto sapeva bene che bisognava esser sempre pronti: gli stranieri e gli ospiti potevano presentarsi all’improvviso e anche essere numerosi. E non era detto che fossero bravi cristiani, ben vestiti e ammiratori del canto gregoriano.
“Si abbia, inoltre, la massima cura e sollecitudine per l’accoglienza dei poveri e dei pellegrini, poiché ancora di più in essi viene accolto Cristo”. Per Benedetto una è cosa certa: si accoglie la presenza misteriosa, ma reale, del Cristo risorto nell’ospite. Noi che aspettiamo la seconda venuta del Messia, lo ritroviamo già nello sconosciuto che bussa alle nostre porte. L’intuizione di Benedetto è profonda: i monaci sanno di essere pellegrini in questo mondo; non accolgono poveri e forestieri in casa propria, ma compagni d’umanità nella casa di Dio. E Dio arriva il più delle volte inaspettatamente e quasi di nascosto.
La rivoluzione spirituale e culturale della Regola non serve quindi per innalzare i baluardi di un hortus conclusus, ma è una fucina aperta di civiltà, che dal monastero si irradiava poi sul mondo. “Del pane di San Benedetto ha mangiato tutta quanta la Chiesa”, ricordava il cardinale benedettino Ildefonso Schuster. La purezza evangelica tanto antica e tanto nuova del legislatore nursino non può non toccare anche i nostri cuori, in un’ora in cui il Santo Padre chiama il corpo di Cristo – di Colui che s’è fatto povero e straniero per noi – a divenire più effettivamente una Chiesa per i poveri. Vicinanza e prossimità ai poveri e a tutti coloro che chiedono di essere accolti: l’opzione Benedetto e l’opzione Francesco non possono essere più vicine.
“È proprio quanto fece san Benedetto” – strigliava i populisti papa Francesco ai partecipanti alla conferenza (Re)thinking Europe nel 2017 – “Egli non si curò di occupare gli spazi di un mondo smarrito e confuso. Sorretto dalla fede, egli guardò oltre e da una piccola spelonca di Subiaco diede vita ad un movimento contagioso e inarrestabile che ridisegnò il volto dell’Europa”. In quest’opera fu veramente messaggero di pace, realizzatore di unione e maestro di civiltà. E pochi giorni fa, nella lettera scritta nel ricordo del 10° anniversario della visita a Lampedusa, scriveva: “in questi giorni in cui stiamo assistendo al ripetersi di gravi tragedie nel Mediterraneo, siamo scossi dalle stragi silenziose davanti alle quali ancora si rimane inermi e attoniti. La morte di innocenti, principalmente bambini, in cerca di una esistenza più serena, lontano da guerre e violenze, è un grido doloroso e assordante che non può lasciarci indifferenti. È la vergogna di una società che non sa più piangere e compatire l’altro”.
Il punto della questione è proprio qui: la globalizzazione dell’indifferenza, una grave mancanza di empatia e di carità. Evagrio Pontico scriveva dal deserto nordafricano: “Monaco è colui che si ritiene uno con tutti, abituato com’è a vedere se stesso in ognuno”. Allora ospitare poveri e forestieri – e accogliere il Signore nella loro persona – conserva tutto il suo valore reale, ma è anche simbolo e preparazione di un’altra accoglienza, più profonda e interiore: l’accoglienza che si dà al Signore nel proprio cuore e che è lo scopo di tutta la vita.