Da Gaza a Subiaco, guerra nell’arena del cuore. Anche se l’esperienza religiosa e monastica della travagliata striscia di Gaza è finita da tempo, la sua eredità e il suo insegnamento sono preziosi ancora oggi.
Gaza, città di frontiera e crocevia di popoli e culture differenti, dal clima temperato, dal terreno fertile e ricca d’acqua, è stata sempre al centro delle rotte fra Europa e Asia, Medioriente e Africa. La città e i suoi dintorni furono una delle ultime roccaforti pagane della tarda antichità, ma dall’inizio del V secolo divenne un fiorente centro cristiano, con importanti comunità monastiche dove anacoresi e cenobitismo vivevano in fecondo accordo e con una celebre scuola di retorica, arrivando a contendere alla stessa Atene il prestigioso primato di capitale culturale dell’Impero d’Oriente.
Tutto iniziò con lo sforzo pionieristico di Ilarione, la cui vita è la terza della trilogia di vite di monaci composta da Girolamo. Nato nel 291in una ricca famiglia di Gaza, iniziato all’ascesi dal grande Antonio abate in Egitto, viene tradizionalmente considerato come il patriarca del monachesimo palestinese e taumaturgo di fame internazionale per l’epoca. Fondò una comunità monastica vicino alla sua città natale, anzi, secondo la narrazione geronimiana, per il suo ascendente si formarono folte colonie di monaci. Al termine dei suoi pellegrinaggi spirituali, una vera e propria odissea monastica che lo portò in Egitto, in Siria, in Sicilia e in Dalmazia, Ilarione morì finalmente a Cipro nel 371. Quando i suoi resti furono riportati a Gaza, divenne oggetto di venerazione popolare. Ancora nel 570 l’Itinerarium Antonini, redatto da un anonimo di Piacenza, visita l’accogliente Gaza segnalando la tomba di Ilarione.
Più recentemente la spedizione di ricerca franco-palestinese che opera sul campo dal 2003 ha riportato alla luce la grotta di Ilarione e l’insediamento monastico, attivo dal IV all’VIII secolo. Gli scavi hanno confermato che Ilarione fondò un monachesimo di tipo semi-eremitico a Gaza prima del 330 nel villaggio di Thavatha (Umm el-Tut), dando più concretezza alla sua figura finora troppo letteraria.
La conversione al cristianesimo di Gaza si dovette però all’opera di Porfirio, che fu vescovo della città. Nato nel 347 a Tessalonica, a 31 anni come molti giovani della sua epoca scelse di condurre vita monastica in Egitto, nel deserto di Scete. Qui rimase per cinque anni, poi si spostò in Palestina vivendo in una grotta presso il fiume Giordano. Estenuato e indebolito dall’austero regime di vita, volle visitare i luoghi santi a Gerusalemme: guarì miracolosamente dopo una visita al Calvario e da quel momento decise di donare ai poveri tutti i suoi beni, riducendosi in povertà tanto da fare il ciabattino per mantenersi. Ma la sua fama di santità raggiunse ben presto il vescovo di Gerusalemme, che ordinò Porfirio prima sacerdote a 45 anni e poi vescovo mandandolo a Gaza, città opulenta, popolosa, ma tenacemente legata ai suoi idoli. Durante il suo episcopato, appoggiando anche la distruzione dei templi degli dèi, crebbe notevolmente il numero dei cristiani in quella Gaza ancora pagana. Operò anche molti prodigi e miracoli, tanto che si diffuse la fama di vescovo taumaturgo fino alla morte, avvenuta nel 420, dopo 25 anni di episcopato. Una basilica ancora esistente e per fortuna solo sfiorata da un attacco missilistico, venne eretta già nel 425 in suo onore, per custodirne le spoglie da sempre venerate con devozione.
Numerosi erano i monasteri collocati tra la cerchia più interna e quella più esterna di Gaza: il monastero di Bethelea, dove vissero i discepoli di Ilarione, quello di Silvano a Nathal Besor, quello di Zenone a Kefer Shez, quello di Isaia a Beth Dallatha, quello di Pietro l’Iberico tra Gaza e Maiuma, il porto della città, la laura di Severo di Antiochia, il celebre monastero di Serido e infine quello di Doroteo tra Gaza e Maiuma. Il monachesimo palestinese era perlopiù organizzato in laure, ossia celle eremitiche site lungo un corso d’acqua, con una chiesa ed edifici al centro per i bisogni della comunità. Molti monasteri erano vicini ai villaggi, il che dimostra che i monaci erano piuttosto coinvolti nella vita religiosa e intellettuale di Gaza. E in effetti momento di svolta fu il 451, data del Concilio di Calcedonia: la questione cristologica arrivò a dividere la chiesa e il monachesimo di Palestina tra i fautori del dogma calcedonese delle due nature di Cristo in una persona e i loro avversari, favorevoli alla formula dell’unica natura e da ciò la designazione di monofisiti. Solo nel VI secolo anche i monaci di Gaza si assestarono sulla confessione calcedonese.
È proprio all’inizio del VI secolo che si colloca la fondazione del monastero dell’abate Serido, il più celebre dell’epoca grazie alla presenza di Barsanufio, chiamato anche il Grande Anziano, e Giovanni, detto il Profeta, monaci vissuti nel VI secolo che vissero da reclusi fino alla morte. I due monaci avenvano come intermediario prima Serido e poi Doroteo, figlio spirituale di entrambi e a autore di grande sapienza spirituale, che fondò a sua volta un cenobio. Barsanufio e giovanni, attraverso la lotta interiore e la preghiera continua, entrarono in una profonda comunione con Dio e con gli uomini. La fama della loro santità attirò molti e difatti si è conservato un corposo epistolario: è una collezione di domande e risposte delle lettere dei due abba, che costituiscono una miniera di informazioni sulla pratica della direzione spirituale nel monachesimo tardoantico. I figli spirituali aprivano ai reclusi la porta del loro cuore e ponevano, attraverso la mediazione di Serido, delle domande che potevano riguardare tutte le sfere dell’esistenza, ottenendone delle risposte che Serido trascriveva. La solitudine ricercata per la contemplazione e l’amore di di Dio non impediva ai due anziani di esercitare verso chiunque un servizio di carità e una assunzione di responsabilità incomparabili: con i due abba ci troviamo di fronte a dei maestri e medici, del cuore, si intende, chiamati a svolgere il loro ministero nella cura delle passioni dell’anima.
E ora da Gaza a Subiaco, dal grande patriarca del monachesimo occidentale, San Benedetto. Abbiamo detto occidentale, ma le affinità di Benedetto con certi aspetti della spiritualità monastica orientale sono maggiori di quanto si sia finora creduto. Negli stessi anni in cui Barsanufio e Giovanni Anziani mostravano di conoscere i detti dei Padri del deserto egiziano, Benedetto doveva venire a conoscenza di una prima versione di quest’opera, tradotta da Pelagio e citata nella Regola (18, 25; 40, 67). Un’altra fonte comune a Gaza e a Benedetto è San Basilio, con l’insistenza sulla «memoria di Dio», così presente negli Anziani di Gaza e nella regola benedettina. Ma negli Anziani e soprattutto in Benedetto prevale l’aspetto escatologico del «ricordo del giudizio». Notevole è anche l’influsso di Evagrio, ricevuto a Gaza nonostante forti obiezioni per via di alcune sue dottrine di dubbia ortodossia; e ricevuto, anche se indirettamente attraverso Cassiano, da Benedetto. Non è un caso, allora, che, vi siano alcuni brani di Benedetto sorprendentemente paralleli a quelli di Barsanufio su punti quali, l’inizio faticoso del cammino, la vita monastica come una corsa, l’apertura del cuore all’abate e la preghiera monologhista, molto praticata in Oriente, che consiste nel ripetere instancabilmente la stessa breve formula e che in Benedetto occupa tutti gli spazi di tempo fra le ore dell’Ufficio divino.
Il monachesimo di Gaza è scomparso da tempo, ma la esperienza umana e religiosa vive ancora nell’eredità consegnata da San Benedetto a tutto l’Occidente.