Giovedì della prima settimana di Quaresima
Chiedete, cercate, bussate. Nessuno deve temere di chiedere, né sentirsi umiliato per questo: Dio è disposto a dare quanto noi siamo capaci di ricevere, nella misura in cui riusciamo a svuotare il cuore da interessi e desideri. Ma una delle obiezioni ricorrenti è questa: se Dio è onnisciente e sa già di cosa abbiamo bisogno, perché domandare? Agostino prova a rispondere così: domandando, ci rendiamo conto della nostra dipendenza da Dio e, nello stesso tempo, diventiamo consapevoli dei nostri veri bisogni. Non è che ci immaginiamo un Dio sordo o che ignori la nostra situazione; ma pregando, prendiamo coscienza delle nostre stesse necessità e della nostra situazione interiore.
A questa risposta se ne può aggiungere un’altra. Lo scopo della preghiera non è ottenere qualcosa di concreto: è stabilire un contatto personale con Dio. L’aver necessità di qualche cosa ce ne dà semplicemente l’occasione.
Ma prima di sapere come pregare, è più importante ancora sapere come non stancarsi mai, non scoraggiarsi mai, non deporre le armi di fronte all’apparente silenzio di Dio. Gesù infatti ci insegna a pregare con fiduciosa perseveranza, rivelandoci qual è il cuore di Dio e quale deve essere il cuore di chi prega. Nella Trinità il Padre dona tutto se stesso al Figlio e il Figlio, tutto ciò che possiede, lo riceve dal Padre. La preghiera allora ci innalza dalla terra alla vita divina e ci fa partecipare a questo mistero: Dio padre ci invita a chiedere, perché vuole darci tutto ciò che possiede, tutto ciò che è, la sua bontà, la sua perfezione, la sua santità. Dio, che è grande, ama dare grandi doni, siamo noi purtroppo che abbiamo il cuore troppo piccolo per riceverli.
Gregorio Magno, Regola Pastorale I, 10
In tutti i modi deve essere trascinato a divenire esempio di vita, colui che morendo a tutte le passioni della carne, vive ormai spiritualmente; ha posposto a tutto il successo mondano; non tema alcuna avversità; desidera solamente i beni interiori. Attraverso la pratica della preghiera, ha imparato per esperienza che può ottenere da Dio ciò che chiede, lui al quale in modo speciale è detto dalla parola profetica: “Mentre ancora tu parli, io dirò: Eccomi, sono qui” (Is 58, 9). Infatti, se venisse qualcuno a prenderci per condurci come suoi intercessori presso un potente adirato con lui e che, per altro, non conosciamo, noi risponderemmo subito: non possiamo venire ad intercedere perché non sappiamo niente di lui. Dunque, se un uomo si vergogna di farsi intercessore presso un altro uomo che non conosce, con quale animo può attribuirsi la funzione di intercedere per il popolo presso Dio, chi non sa di godere la familiarità della sua grazia con la sua condotta di vita? O come può chiedergli perdono per gli altri, uno che non sa se egli è placato verso di lui? A questo proposito, un’altra cosa occorre temere con maggiore sollecitudine, cioè che colui che si crede possa placare l’ira, non la meriti a sua volta a causa del proprio peccato. Giacché sappiamo tutti molto bene che, se chi viene mandato a intercedere è già sgradito per se stesso, l’animo di chi è irato viene provocato a cose peggiori. Pertanto, chi è ancora stretto dai desideri terreni veda di non accendere più gravemente l’ira del Giudice severo e mentre gode del suo luogo di gloria, non diveng autore di rovina.