Hannah Arendt nasce il 14 ottobre 1906 vicino a Hannover, da una famiglia ebrea benestante. Allieva di Martin Heidegger a Marburgo, con il quale studia filosofia e stringe una relazione sentimentale. Concorda con lui una tesi sul concetto di amore in sant’Agostino, che completerà però con Karl Jaspers a Heidelberg, dopo essersi allontanata dal maestro e amante per le simpatie di Heidegger con il Nazismo. Dal mondo cristiano passa a occuparsi di ebraismo, studiando Rahel Varnhagen, un’ intellettuale ebrea vissuta a Berlino a cavallo tra ‘700 e ‘800. Una donna che criticava sia la ghettizzazione nel mondo ebraico, sia l’integrazione con il rischio della perdita di identità. Da questa figura, Hannah Arendt trae ispirazione per le sue future scelte in piena autonomia rispetto al movimento sionista, fautore della costruzione di uno stato ebraico. Negli anni Trenta, con l’ascesa del regime nazista, Arendt si trasferisce a Parigi e successivamente fugge a New York nel 1941. Sarà qui che inizierà a farsi conoscere pubblicando “Le origini del totalitarismo”, frutto di anni di lavoro e di collaborazione con il marito, poeta e filosofo tedesco Heinrich Blücher. Ma la svolta deve ancora arrivare. Nel 1961, quando si apre il processo al funzionario nazista Adolf Eichmann, Hannah si reca a Gerusalemme come inviata del settimanale “New Yorker”. Di qui la straordinaria scoperta che il pericolo vero si celava nella mediocrità. Di qui la lezione racchiusa nel suo celebre scritto del 1963, “La banalità del male”. Nel corso del Novecento si è moltiplicata e si è approfondita l’esperienza umana del male, almeno del male storicamente e politicamente organizzato. Se pensiamo alle guerre mondiali, alla Shoah, ai genocidi, alle persecuzioni di massa, all’uso della bomba atomica. Più che di secolo breve, dovremmo parlare di secolo interminabile. Questa espressione della distruttività umana nella storia ha visto il crescere parallelamente di una serie di teorie critiche nei confronti della costruzione della società, delle logiche con cui gli uomini organizzano la storia e di cui appunto oggi noi possiamo avere un quadro complessivo, integrato, non tanto per arrivare ad una teoria critica superiore, ricapitolativa degli approcci precedenti, quanto piuttosto al fine di arrivare ad una teoria critica che sia integrata (cioè capace di raccogliere dei metodi, delle categorie, delle intuizioni di questi approcci critici, di questi sforzi di lucidità nei confronti dell’esperienza del male) da un lato, ma anche una teoria critica aperta ( nel senso che sa rinnovare il suo sguardo, di ampia portata interdisciplinare e anche interculturale, che si avvale di più discipline e allo stesso tempo dell’esperienza e della sapienza storica di più culture) dall’altro. Per esprimere in modo semplice il contenuto di queste teorie critiche della società, ma si potrebbe dire più direttamente teorie critiche del male organizzato, si può portare l’attenzione su quello che può essere ritenuto il luogo di origine del male nella storia. Naturalmente si tratta di un luogo tra virgolette, nel senso che non si tratta di un posto, di una dislocazione spaziale, ma di una dinamica o evento che genera questo processo di dissolvimento di distruzione per cui poi abbiamo noi un’esperienza diffusa del male nel cuore della storia. Questi luoghi sono stati identificati in modo diverso; queste cause, questi inizi del male, sono stati identificati in modo differenti a seconda degli approcci delle teorie critiche che prenderemo in esame. Per chiarezza ricordo che quando parlo del male intendo comunque una dinamica, un processo caratterizzato da:
- Distruzione di valori, vite, persone, futuro, verità, dove l’elemento distruttivo è prettamente caratterizzante questi processi.
- Menzogna, dissimulazione, palesata come bene; il male non ci si presenta mai come male ma sempre con altro nome (che pu essere lla religione, la morale, l’economia del progresso , la volontà popolare, la sicurezza nazionale, la fede in Dio), perché il male di volta in volta si caratterizza con sembianze di bontà e di risposta positiva alla realtà;
- Spegnimento della libertà, ricatto, oppressione, ingresso di un regime di necessità che tende a soffocare la libertà umana . Laddove il male si afferma, la libertà umana muore.
Se dunque questo è il male, il bene per contro sarebbe al di là del mistero della sua fonte, nel senso che non sappiamo se il bene abbia origine in Dio, nella vita, nella trama delle relazioni umane; un bene che sarebbe al di là insomma delle molte risposte sulla fonte del bene, bene di per sé che è concreto, come l’esperienza del bene che di per sé è concreta. Ciò vuol dire che, all’opposto dell’esperienza del male, il bene è esperienza di creatività, fioritura delle persone e delle relazioni, armonia e giustizia, pace, fiducia e misericordia, compassione e speranza, comprensione, emersione della verità. Tutti caratteri molto concreti per quanto possano essere ritenuti ardui; caratteri che segnano proprio una radicale differenza nei confronti del male. Tra le teorie critiche del Novecento che hanno diversamente interpretato l’inizio lo sviluppo dei processi del male a partire dall’identificazione di alcuni luoghi metaforicamente intesi, grande contributo fu proprio quello di Hanna Arendt, la quale diagnosticò come prima nuova forma storica di male nel XX sec. proprio il totalitarismo della società intera che si costruisce aderendo alla violenza e spegnendosi dapprima a poco a poco, e poi all’improvviso, nella vigilanza della coscienza, all’attenzione per il bene, per le vere forme politiche di democrazia, di salvaguardia dei diritti dell’uomo. Totalitario non è soltanto il potere, il governo, chi comanda, ma soprattutto anche il popolo che in preda all’angoscia, al vuoto di presenza di senso a se stesso, si rende disponibile a praticare, nel suo piccolo, forme di male nascosto o evidente ma tollerabile, se non addirittura condiviso. La banalità del male, concetto da lei formulato davanti al processo ad Adolf Eichmann, è un concetto amplificabile nella formula: “la banalità della coscienza che si spegne voltando le spalle al bene e scegliendo deliberatamente il male senza provare alcun rimorso di coscienza”. Nel totalitarismo la prima forma di violenza sta nella mancanza di civiltà in cui imperversa la nostra società, dove il risentimento, l’aggressione, il colpire i più deboli, il bullismo, il vandalismo, è indice di una società violentemente malata. I personaggi del male del Novecento (Mussolini, Hitler, Stalin, etc.) sono solo specchi della malvagità diffusa nella maggior parte degli ambienti della società. Per Arendt la prima arma contro il Totalitarismo è auspicare e lavorare, faticare, per un risveglio delle coscienze, collettivo e individuale. Come? Insegnando a formulare domande, praticando la filosofia e, laddove serve, obiezione di coscienza e di esistenza. Non accettando mai il compromesso con ogni forma di male.
Concludendo. La lezione che ci lascia la teoria critica integrata e aperta della Arendt è riassumibile in due indicazioni:
- Di fronte al male è necessario sviluppare una profonda coscienza critica, studiando le diverse metodologie di teorie critiche, integrandole tra loro, così da essere in grado di analizzare i fenomeni del male, saperli riconoscere, soprattutto quando più ci sono vicini perché confusi col nostro normale stile di vita.
- Fare i conti col fatto che non basta il pensiero critico, il quale può crescere solo all’interno dell’esercizio critico della responsabilità, cioè all’interno dell’esistenza critica, della prassi, dell’azione critica. Solo allora può davvero comprendere i fenomeni del male, stabilire una distanza liberante. Perché soltanto chi si impegna e si fa carico delle contraddizioni della storia, accettando di fare la propria parte nella vita sociale, politica, educativa, economica, e cercando veramente di fare fronte agli effetti del male anziché illudersi che il male possa essere uno strumento di cui servirsi per guadagnare un vantaggio sugli altri, può capire che la ricerca sul male ha qualcosa di fondamentale non solo per imparare a camminare insieme nella storia ma anche ai fini della stessa ricerca filosofica. Lo studio filosofico orientato alla ricerca della verità sa che non c’è verità se non c’è correlazione ad una esperienza di bene, e che laddove il male trionfa e si insedia non resta più per noi nessuna possibilità di verità, né di salvezza.
©Photograph by Hannah Arendt Bluecher Literary Trust https://flic.kr/p/2kGLvbQ