Lunedì della quarta settimana di Quaresima
Il racconto evangelico ci presentano una guarigione a distanza compiuta da Gesù, Parola di vita. Egli si reca a Cana, dove aveva operato il primo dei suoi segni; ora ecco il secondo: un funzionario di Erode Antipa supplica Gesù di seguirlo a Cafarnao, dove suo figlio giace morente. In risposta all’invocazione disperata di un’umanità che languisce e sta per morire, Gesù gli offre allora una parola che dona la vita, ma esige la fede. Il prodigio di Gesù è la sua Parola: credervi è come aprire davanti a noi una porta che ci introduce in una realtà nuova. I miracoli di Cristo hanno tutti un senso simbolico più profondo dell’accaduto e c’è un collegamento fra i due segni di Cana. A Cana è stato compiuto un primo miracolo con la presenza e la parola di Gesù; ora un secondo miracolo avviene in forza della sola parola. In questo episodio avviene una prefigurazione dei sacramenti: la trasformazione delle cose del mondo, perché abbiano la forza santificante per salvare le anime. I sacramenti nella Chiesa sono come la continuazione della creazione: con la parola Dio ha creato il mondo; con le parole della chiesa, con le preghiere e con i sacramenti, lo santifica.
Gregorio Magno, Commento morale a Giobbe, Pref. 12
Qualche volta Dio sottopone alla prova non per guarire o prevenire il male, ma unicamente per far risplendere la sua potenza salvifica. Ecco perché a chi gli domanda, a proposito del cieco nato: “Chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché nascesse cieco?“, il Signore risponde: “Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio” (Gv 9, 2-3). Tale manifestazione consiste nel fatto che la prova aumenta il valore dei meriti, e quando non c’è nessuna colpa da espiare, scaturisce dalla pazienza un’immensa forza. Così il beato Giobbe, prima lodato dal suo Giudice, è poi abbandonato nelle mani del tentatore; dopo la prova Dio lo ricompensa intrattenendosi familiarmente con lui. Questo dimostra quanto la prova abbia fatto crescere la sua statura. Invece i suoi amici, incapaci di discernere i vari tipi di tribolazione, crede amo, incapace fosse colpito per le sue colpe; perciò, sforzandosi di dimostrare che Dio l’aveva colpito giustamente, finirono per condannare il beato Giobbe come colpevole. Essi non sapevano che Giobbe era stato colpito non perché avesse peccati da espiare, ma proprio perché da tale prova ne venisse maggior gloria a Dio. E per umiliare maggiormente il loro orgoglio, la giustizia divina con li riammette nella sua grazia, se non per intercessione di colui che essi averso disprezzato.