Sabato della terza settimana di Quaresima
La parabola del fariseo e del pubblicano è conosciutissima e forse tra le più popolari. Il succo della questione è questa: chi è che può essere ritenuto giusto davanti a Dio? Sono entrambi rispettosi del tempio, hanno abbandonato le loro case e l’hanno fatto per incontrare il Signore e mettere davanti a lui tutto ciò che sono. Tuttavia Gesù compie un’amara constatazione: i due si pongono di fronte a Dio in due maniere completamente diverse. Il fariseo di per sé non è affatto falso: sta elencando le cose che gli corrispondono e non si sente affatto a disagio al cospetto di Dio; le cose che enumera le ha compiute veramente! È una preghiera onesta, giusta, non sta dicendo nulla di falso. Ma possiamo intravedere qualcosa che non funziona: aggiunge un confronto che gli permette di sentirsi un gradino più su di tutti gli altri. “Non sono come gli altri”. Allora non si tratta di non riconoscere la propria verità, i propri carismi, i propri successi, ma piuttosto di non approfittare di questi doni per disprezzare gli altri e considerarli inferiori a sé. Con il suo incorreggibile senso di superiorità il fariseo contamina tutto, trasformando la sua osservanza in piedistallo dal quale giudicare gli altri. Il pubblicano invece non si azzarda neppure a chiedere la misericordia di Dio ma, ripiegato su se stesso, balbetta; è talmente consapevole del proprio peccato che chiede a Dio di considerare il suo cuore contrito, il suo cuore attraversato dall’amarezza, dalla consapevolezza del proprio peccato, come l’altare del propiziatorio, dimostrando di voler essere tutt’uno con l’offerta sacrificale che rende Dio propizio verso tutti e quindi anche verso di lui. Solo quando si ammette di averne bisogno, si riceve il dono di Dio; ma chi si presenta già pieno, perché non ha nulla da rimproverarsi, rende superfluo il dono. Così uno torna a casa giustificato e l’altro no. Ne I Fratelli Karamazov fa dire allo starets Zosima: “Figlioli, non temete il peccato!”. È una frase provocatoria che svela una buona intuizione: “Non abbiate paura di essere consapevoli di avere peccato! Scoprirete che Dio vi perdonerà, vi rivelerà che è Padre misericordioso nei cieli e che il suo regno è realtà già qui sulla terra”.
Gregorio Magno, Dialoghi 3, 34
Ci sono varie specie di compunzione, secondo che le colpe sono una per una deplorate e piante da chi fa penitenza. Ecco perché di costoro Geremia dice: “Rivoli diversi di lacrime sgorgano dai miei occhi”. Ci sono due specie diverse di compunzione, perché l’anima che ha sete di Dio prima è punta dal timore e successivamente dall’amore. Prima si effonde in lacrime perché, ricordando i propri peccati, teme di essere per questo sottoposta a supplizi senza fine. Quando poi il timore viene rimosso dal lungo affanno provocato dal dolore, la convinzione di essere stati perdonati produce una certa qual sicurezza e l’anima è infiammata dall’amore delle gioie celesti. Così colui che prima piangeva, pregando di non essere condotto al supplizio, in seguito comincia a piangere amaramente perché è tenuto ancora lontano dal regno. Infatti la mente immagina quali siano là i cori degli angeli, quale la società degli spiriti beati, quale la maestà della visione interiore di Dio, e dato che è ancora priva dei beni eterni piange ancora più di quanto non piangesse prima, quando temeva i mali eterni. Accade perciò che la perfetta compunzione del timore consegni l’anima alla compunzione dell’amore.