Martedì della seconda settimana di Quaresima
Quante volte, Signore, abbiamo ostentato opere e meriti per farci vedere e non certo ai tuoi occhi, ma a quelli ammirati degli uomini! Quante volte abbiamo cercato la stima e la gloria del mondo! Gesù smaschera da una parte l’ipocrisia e l’ostentazione, dall’altra mette in guardia contro il vizio dell’ambizione e della ricerca di prestigio personale ai danni della comunità. Invece la grandezza di Dio è l’amore. Amare è servire, con i fatti e in verità. Gesù si è posto in mezzo a noi proprio come colui che serve.
Il fondo della sincerità consiste nello sforzo di rendere l’esterno in noi sempre più simile all’interno. Essere ciò che siamo, senza falsare la verità per timore di dispiacere agli altri. Di solito, anche se non ce ne accorgiamo o non vogliamo ammetterlo, siamo dominati dalla preoccupazione di piacere a chi ci sta vicino; siamo molto preoccupati di dare una certa immagine o mantenere una certa idea che hanno di noi. Mettiamo maggior cura in quello che può essere visto dagli uomini e dove la nostra reputazione è coinvolta. Invece arrivare ad una sincerità completa, compiere ugualmente bene quello che non è visto da nessuno e quello che viene visto dagli altri, significa essere sulla via della perfezione. Per fare questo l’unica preoccupazione del nostro agire è il giudizio di Dio e non il giudizio degli uomini, tener conto più di quello che piace o dispiace a Dio che di quello che piace o dispiace agli uomini. Questo è un punto cardine della vita spirituale.
Anche la Chiesa viene strigliata e richiamata ad ammettere la sua prima tentazione, il suo peccato di fondo: impadronirsi della Parola, invece di accettare Colui che parla. La Parola si fa spesso legge che schiaccia, invece che comunicazione e comunione con Colui che parla. Atteggiamento che all’inizio sembra zelante e che ben presto porta al rifiuto di Dio come Padre d’amore. Convertirsi significa vedere in sé questo peccato di ipocrisia; diversamente, anche con il pretesto di migliorare l’osservanza del Vangelo, lo si perverte.
Gregorio Magno, Commento morale a Giobbe 31, 15 e 8, 42
Quanti di questi tali la santa Chiesa adesso sopporta, che, quando scoccherà l’ora, la verifica dei fatti manifesterà! Siccome adesso gli ipocriti non si muovono contro di essa, si direbbe che per il momento contengono la loro volontà e i loro pensieri come ali ripiegate.
Adesso i buoni e i cattivi conducono questa vita in modo comune e la Chiesa è adesso composta visibilmente degli uni e degli altri. Solo il giudizio di Dio li distingue invisibilmente; soltanto alla fine la Chiesa di Dio si distinguerà dalla società dei malvagi.
Adesso però in essa non possono esistere i buoni senza i cattivi, né i cattivi senza i buoni.
Durante questo tempo gli ipocriti e i giusti coesistono fra loro necessariamente congiunti, affinché i malvagi si convertano grazie agli esempi dei buoni, e i buoni si purifichino per mezzo della provocazione inflitta loro dai malvagi.
Il papiro e il giunco simboleggiano la vita degli ipocriti; essa all’apparenza è verde ma, rimanendo arida per la sterilità delle azioni, possiede soltanto colore. [Gli ipocriti] ricevono l’irrigazione del dono celeste per produrre opere buone, ma si privano dei frutti […].
Spesso infatti compiono opere meravigliose e prodigi, scacciano gli spiriti dai corpi degli ossessi e preannunciano il futuro che conoscono per mezzo dello spirito di profezia, e tuttavia con l’intenzione del loro pensiero sono divisi da Colui che elargisce loro tanti doni, perché non cercano la gloria del Donatore, ma il proprio successo. Si levano addirittura in superbia contro il Donatore, mentre dovrebbero verso di lui essere maggiormente umili.