Sabato della quinta settimana di Quaresima
Dopo il «segno» della risurrezione di Lazzaro le autorità giudaiche sono ormai decise a mettere a morte Gesù, considerato uomo pericoloso. Se egli continuerà a operare miracoli, certamente le folle che già hanno voluto proclamarlo re, lo dichiareranno liberatore della nazione, suscitando l’accanimento dei Romani. Il tempio, di conseguenza, potrebbe venir distrutto. Occorre assolutamente evitare tale pericolo. La decisione mostra che la cecità dei capi nei riguardi di Gesù è totale. Sorge Caifa e interviene con la propria autorità: dalla sua bocca escono parole che sono ragion di Stato, dettate da interesse politico. Il sommo sacerdote vedeva nella predicazione di Cristo un pericolo politico e pensava perciò che fosse meglio sacrificarlo per tirarsi fuori dai guai. Gesù deve essere sacrificato per il bene comune. E in questo, senza volerlo, diventa profeta: Gesù doveva morire per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi. Non si tratta più di una nazione sola, ma della salvezza di tutta l’umanità e del raggiungimento dell’unità perduta di cui l’uomo aveva e ha ancora infinita nostalgia.
Veramente questa missione avviene perché egli dà la vita «per» gli uomini. e sul piano storico il sinedrio decide la morte di Gesù, in realtà Giovanni ci fa capire che il Padre sta attuando il suo disegno di salvezza, grazie all’adesione filiale di Cristo alla sua opera.
Gregorio Magno, Commento morale a Giobbe 34, 27
Non riuscivano infatti a credere che fosse Dio colui che nella carne vedevano morire. Il Figlio, quando sulla terra soccombeva, aveva in cielo un testimone. Si, testimone del Figlio è il Padre, di cui egli stesso nel vangelo dice: “Il Padre che mi ha mandato mi rende testimonianza”. Il quale sempre opera con una sola volontà e un medesimo consiglio col Figlio, di cui dà testimonianza, perché nessuno conosce il Figlio se non il Padre. Aveva quindi un testimone in cielo, lassù, allorché quelli che lo vedevano morire nella carne non sapevano scorgere la potenza della sua divinità. Ora, sebbene gli uomini fossero nell’ignoranza, tuttavia il Mediatore tra Dio e gli uomini, nella sua morte, sapeva che il Padre operava con lui. Ma forse queste parole si possono riferire anche alla voce del suo Corpo. Poiché, se la santa Chiesa sopporta le avversità della vita presente, è appunto perché la grazia divina la conduce al premio eterno. Essa disprezza la morte della carne perché tiene fisso lo sguardo alla gloria della risurrezione. I mali che soffre sono passeggeri, i beni che attende sono eterni. In ordine a questi beni non nutre alcun dubbio, perché possiede già come fedele testimonianza la gloria del suo Redentore. Essa vede in spirito la sua risurrezione e vigorosamente si rafforza nella speranza, perché ciò che vede già compiuto nel suo Capo spera, senza alcun dubbio, che si realizzerà nel Corpo di Lui. E riferendosi a questa Chiesa destinata a raggiungere definitivamente la perfezione, paragonandola alla luna, la descrive in questi termini: “La luna è perfetta per l’eternità”. E siccome è appunto la risurrezione del Signore che alimenta questa speranza della risurrezione, giustamente soggiunge: “Ha in cielo un testimone fedele”. Non deve dubitare della propria risurrezione, poiché possiede già in cielo, come testimone fedele, Colui che è risuscitato dai morti. Perciò il popolo fedele, quando soffre avversità, quando è duramente provato dalle tribolazioni, innalzi lo spirito alla speranza della gloria futura e, confidando nella risurrezione del suo Redentore, dica: “Ecco in cielo il mio testimone”. Questo vale non solo per il beato Giobbe, ma anche per noi. Chiunque, infatti, nel suo agire aspira ad essere lodato dagli uomini, cerca il proprio testimone sulla terra. Chi, invece, nelle sue azioni si propone di piacere a Dio onnipotente, conta di avere il proprio testimone in cielo. E spesso accade che le nostre stesse buone opere vengano in noi criticate da persone superficiali. Ma chi possiede il proprio testimone in cielo, non deve temere le critiche degli uomini.