Sabato dopo le Ceneri
Nessuno può rapire la misericordia del Signore: è inviolabile perché abita nell’alto dei cieli presso Dio. E la misericordia va in cerca di chi è piagato nell’intimo per sanarlo: nel Vangelo Dio ce la fa contemplare incarnata in Gesù. Gesù invita alla sequela Levi, un uomo doppiamente disprezzato, perché arricchitosi come sfruttatore e per di più collaborazionista con l’occupante romano. Gesù stesso avrebbe detto che la conversione di un ricco appartiene alle cose impossibili agli uomini e possibili soltanto a Dio! Come solo Dio può rimettere i peccati, così anche convertire un ricco lo può fare soltanto lui. Gesù non è venuto a chiamare alla conversione ai giusti, ma i peccatori e la misericordia l’ha praticata fino al limite estremo, saziando con la propria vita gli affamati di giustizia e di santità. Levi accoglie il passaggio sconvolgente della misericordia nella sua esistenza e nella sua casa, perciò prepara un grande banchetto. Questo banchetto doveva aver impressionato tantissimo i contemporanei. Il fatto più importante è la festa: la festa per la festa, nella massima gratuità possibile. E il banchetto di Levi non è altro che l’immagine della comunione con Dio, che l’uomo peccatore, chiamato dalla misericordia, gusterà a suo tempo. Nell’abbraccio misericordioso delle mani crocifisse di Gesù, i nostri peccati non vengono più ricordati. Abbiamo ricevuto il comandamento dell’amore e viviamo di questa misericordia, perciò muoviamoci a compassione per tutti, chiedendo allo Spirito Santo di infonderci la forza di compiere il bene. Così Simeone il Nuovo Teologo cantava nei suoi inni: “O mio Cristo e mio Dio, non mi condannare, non consegnare alla giustizia colui che molto ti ha offeso, ma accoglimi come l’ultimo dei tuoi servi e rendimi degno di servirti su questa terra, mio Salvatore, e di ricevere il tuo Spirito divino, caparra del tuo regno e in cielo fammi godere del tuo banchetto, della tua gloria. Che io ti possa vedere, mio Dio, per i secoli dei secoli. Amen“.
Gregorio Magno, Commento a Giobbe, 19
“Sebbene la vera compassione stia nell’usare le proprie ricchezze per le sofferenze del prossimo, talvolta però, quando uno ha grande disponibilità di mezzi, può avvenire che la mano sia più pronta a dare che il cuore a compatire. In realtà chi vuol dare perfettamente, oltre al porgere aiuto all’afflitto, fa suo anche il suo stato d’animo, e prima prende su di sé la sofferenza del paziente e poi somministra il rimedio al suo dolore. Allora è piena la compassione del nostro cuore quando per amor del prossimo non temiamo di accettare la povertà per liberarlo dalla sua sofferenza. Questo modello di pietà ce l’ha dato il Mediatore fra Dio e gli uomini. Egli poteva salvarci anche senza morire, ma preferì soccorrerci morendo, perché ci avrebbe amato di meno se non avesse preso su di sé le nostre ferite; né ci avrebbe dimostrato l’intensità del suo amore se non avesse sostenuto temporaneamente lui quel male che voleva togliere a noi. Ci trovò passibili e mortali, ma lui che ci aveva creati dal nulla, avrebbe potuto liberarci dai patimenti anche senza morire. Invece per mostrare quanto era grande la forza della sua compassione, si degnò di diventare lui quello che non voleva fossimo noi, e sostenne in sé la morte temporale per espellere da noi la morte eterna. Forse che restando invisibile a noi, colle ricchezze della sua divinità, non avrebbe potuto arricchirci colle sue meravigliose risorse? Ma per tar riavere all’uomo le ricchezze interiori, Dio si degnò di apparire povero all’esterno. Perciò il grande predicatore Paolo, per accenderci in cuore una generosa compassione disse: “Si fece povero per noi, sebbene fosse ricco…”. Talvolta diciamo che vale di piú la compassione del cuore che il dono materiale, perché chi perfettamente compatisce l’indigente, dà meno importanza a tutto quello che dà.