Giovedì dopo le Ceneri
“Prendo oggi a testimoni contro di voi il cielo e la terra: io ti ho posto davanti la vita e la morte“. Cielo e terra, tutto il cosmo creato da Dio è chiamato a farsi testimone e vindice del patto. Dio è il Vivente che, con il suo soffio, fa vivere la creatura: occorre tenersi uniti a lui nell’amore e nell’ascolto delle sue parole, le uniche in grado di elargire benedizione e vita. È qui che si apre il bivio del paradosso: alla vita che è Dio, si perviene accettando di attraversare ogni giorno la morte a noi stessi; chi invece vuol salvare a tutti i costi la propria vita, finirà per perderla. San Colombano, monaco irlandese e apostolo dell’Europa altomedievale, scriveva nelle sue Istruzioni: “Viviamo per Colui che, morendo per noi, è la Vita; moriamo a noi stessi per vivere per Cristo; non possiamo infatti vivere per lui, se prima non moriamo a noi stessi, cioè alle nostre volontà proprie. Siamo di Cristo, non nostri! Ma nessuno può morire a sé, se Cristo non vive in lui. Ma se Cristo vive in lui, nessuno può vivere per sé. Vivi in Cristo, come Cristo vive in te!“. Seguire indica la presenza costante di chi si segue, senza perderlo di vista; se noi acconsentiamo a seguirlo, scriveva Simon Weil nell’Attesa di Dio, l’amore infinitamente più infinito di Dio verrà a deporre in noi un piccolo seme. Far crescere questo piccolo seme è opera di giardinaggio interiore non indolore; ogni opera buona costa fatica. Rinnegare se stessi significa distruggere le erbacce della nostra stessa carne, estirpare le gramigne di contraddizioni e scuse che potrebbero soffocarlo. Ciò nonostante il seme cresce, fino al giorno in cui l’anima sarà pervasa di amore divino e increato e abbandonata completamente all’amore del Padre.
Il susseguirsi di fortuna e avversità è grazia di Dio
Se osserviamo con chiarezza il corso di questa vita, nulla vi troviamo di stabile, nulla di fisso; ma come il viaggiatore cammina ora in piano, ora in salita, così a noi, in questa vita, ora si presenta la prosperità, ora l’avversità: i tempi si succedono gli uni agli altri e si confondono a vicenda. Dato perciò che in questo mondo la mutevolezza pone fine a tutto, come non dobbiamo innalzarci nelle prosperità, così non dobbiamo abbatterci nelle avversità. Tutto ci spinge ad anelare di cuore a Colui, presso cui ciò che è, resta fisso e la fortuna non si muta per l’avversità. In questa vita, dunque, per disposizione mirabile di Dio onnipotente, tutte le cose vanno in modo che o la prosperità succeda alle disgrazie, o le disgrazie seguano la prosperità; così noi, umiliati, impariamo a piangere i nostri peccati; poi, nuovamente innalzati, tratteniamo nella nostra mente il ricordo delle disgrazie come àncora d’umiltà. Ciò non lo si deve considerare ira del nostro Creatore, ma grazia: per essa impariamo che tanto più conserviamo i Suoi doni nella realtà, più li custodiamo nell’umiltà.
Gregorio Magno, Lettera 52 al patrizio Prisco