Periodico di informazione religiosa

W di WEIL SIMONE

by | 3 Lug 2024 | Filosofia

Maria d’oro Maria di catrame è il nome della fiaba che la mamma di Simone Weil ( Parigi, 3 febbraio 1904 – Ashford, 24 agosto 1943) raccontava alla figlia di 11 anni prima di addormentarsi. La giovane protagonista, Maria, corrispettivo della famosa Cenerentola, veniva mandata nel bosco dalla matrigna cattiva; nel bosco si imbatte in una casa magica dove le si chiede, per entrare, se preferisce passare dalla porta d’oro o da quella di catrame. Maria risponderà: “Per me il catrame va benissimo”. Era la risposta giusta e le cade addosso una pioggia d’oro. La stessa cosa si presenta alla figlia della matrigna, che però, diversamente, alla domanda sull’opzione di passare attraverso la porta d’oro o attraverso la porta di catrame, sceglierà la porta d’oro, ritrovandosi addosso il catrame. Dobbiamo credere a Simone Pétrement, l’amica di Weil, autrice della migliore biografia in circolazione su Simone, quando ci spiega che questa favola influenzerà tutta la vita della nostra Filosofa. “Ma forse a Dio piace utilizzare i rifiuti, i pezzi difettosi, gli oggetti di scarto”. “Si direbbe che ci sono anime irrimediabilmente scartate dal servizio di dio per insufficienza della natura. Io tra queste. Vi si può rimediare? C’è un procedimento per far crescere il grano sulla pietra?”. “Vedere un paesaggio com’è quando io non ci sono […].Quando sono in qualche luogo, io insozzo il silenzio del cielo e della terra col mio respiro e col battito del mio cuore”. Quale concezione di Dio in Simone Weil? Perché Simone Weil oggi? Riporto ancora le parole della sua amica biografa Petremènt: “Raccontare la vita di grandi uomini, separandola dalla loro opera, ha come risultato inevitabile di far risaltare soprattutto le loro debolezze, perché è nella loro opera che hanno messo il meglio di se stessi. La cosa più odiosa, però, è che in generale tutte le meschinità, tutte le bassezze sono raccontate in modo che appaiano come il prezzo del genio…si dovrebbe concepire un metodo per lo studio della vita dei grandi uomini, che consistesse nel cercarvi i segni di quella grandezza che si manifesta pienamente solo nelle opere; le piccinerie non verrebbero dissimulate, però apparirebbero come il limite e non il fattore essenziale del genio. I biografi moderni fanno, in generale, tutto il contrario: non raccontano la vita di un grand’uomo, ma quella di un uomo piccolo che, non si sa per quale miracolo, ha fatto grandi cose” (Simone Pétrement, La vita di Simone Weil, a cura di Maria Concetta Sala, trad. it. di Efrem Cierlini, Adelphi, Milano 1994, pp. 262-263). Per comprendere e aiutarci ad entrare nel pensiero della Weil, per macro aree e brevi pennellate, ho scelto 6 quadretti, dove lascerò soprattutto parlare Lei.

  1. La radice del desiderio di Dio:

Simone Weil parte dal presupposto che l’essere umano è intrinsecamente orientato verso Dio. Weil parte dalla constatazione che l’essere umano sperimenta una sorta di vuoto interiore che solo il divino può colmare. Questo bisogno è radicato nella consapevolezza della propria finitezza e imperfezione.Tale desiderio è universale e innato nell’essenza umana, costituendo un elemento chiave della nostra esistenza. La consapevolezza del nostro stato di limitazione e finitezza genera un desiderio di un qualcosa di più grande e trascendente. “Dio esiste perché io lo desidero”. Ma siamo noi ad andare verso Dio, come verso il nutrimento che ci manca, o viceversa siamo noi il pane di Dio, e ci possiamo vivere come risposta all’amore mendicante di Dio che vagabondo va in cerca della sua Creatura? 

 “Nessuno va a Dio creatore e sovrano senza passare per Dio svuotato della sua divinità. Dobbiamo svuotare Dio della sua divinità per amarlo. Egli si è svuotato della sua divinità diventando uomo, poi della sua umanità diventando cadavere (pane e vino), materia”. 

Sulla base di queste convinzioni, la Weil colse importanti e significative analogie tra il cristianesimo e le grandi filosofie della necessità, quali lo Stoicismo e la filosofia di Spinoza: credere che tutto ciò che è deve essere e liberarsi della propria soggettività che pretende di dettare le regole al mondo sono, a suo giudizio, due scelte fondamentali per vivere secondo uno spirito autenticamente cristiano. Si tratta di accettare ogni cosa, anzi di amare ogni cosa, persino l’infelicità: “Si rimprovera spesso al cristianesimo una compiacenza molle nei confronti della sofferenza e del dolore. E’ un errore. Il fulcro del cristianesimo non è tanto il dolore e la sofferenza, sensazioni e stati d’animo in cui è sempre possibile gustare una voluttà perversa, quanto l’infelicità. L’infelicità non è uno stato d’animo. E’ una polverizzazione dell’anima dovuta alla brutalità meccanica delle circostanze. La degradazione che un uomo subisce di fronte a se stesso, passando dallo stato umano a quello di un verme schiacciato che si agita sul terreno, non è cosa di cui possa compiacersi nemmeno un pervertito; tanto meno un saggio, un eroe o un santo. L’infelicità è ciò che s’impone ad un uomo suo malgrado. Essa ha per essenza e per definizione l’orrore e la ribellione di tutto l’essere di colui del quale essa s’impadronisce. A tutto questo bisogna acconsentire per mezzo dell’amore soprannaturale”.

  1. La necessità della distanza tra Dio e l’essere umano:

Contrariamente a molte concezioni tradizionali di Dio come entità onnipotente e onnisciente, Weil sottolinea la necessità di una “distanza” tra Dio e l’essere umano. Afferma che Dio deve ritirarsi per consentire la libertà dell’essere umano. Questa distanza permette la scelta libera di avvicinarsi a Dio, piuttosto che essere sottomessi da un potere assoluto. “È necessario sradicarsi. Tagliare l’albero e farne una croce, e poi portarla tutti i giorni. Sradicarsi socialmente e vegetativamente. Esiliarsi da ogni patria terrestre. Fare tutto questo a un altro, dal di fuori, è un surrogato di decreazione. Ciò significa produrre qualcosa d’irreale. Ma sradicandosi si cerca qualcosa di più reale” (Simone Weil, Quaderni, II, trad. it. di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1985, p. 250.)

  1. L’importanza del consenso

Il consenso è, per Weil, il fondamento di una relazione autentica con Dio. Questo consenso non può essere imposto, ma va lasciato emergere dalla libera scelta dell’individuo di sottomettersi con un gesto di libero arbitrio alla volontà divina. In questo modo viene preservata e messa in risalto la centralità della libertà umana. “Decréation”; “attenzione”; “azione non agente”;“sventura”; “amore senza oggetto”; queste ed altre ancora sono le parole che illuminano e riassumono l’intero percorso di Weil considerandolo all’interno di una concezione di genesi\ creazione a metà fra una visione gnostica, la creazione come caduta, e  una visione biblica di creazione buona. Il termine “decréation” risulta peculiare nella filosofia di Weil perché correlato al tema dello sradicamento e della sventura. Ci basti, per ora, questo:

“Solo la sventura estrema produce pienamente la sofferenza redentrice. E’ dunque necessario che essa si dia perché la creatura possa decrearsi” . Il male, dunque, inteso come distanza fra la creatura e il Creatore, è una “condizione della de-creazione”, e la de-creazione un modo per sopprimerlo. “Quando con il martello si batte un chiodo, il colpo ricevuto dalla larga testa del chiodo si trasmette alla parte appuntita per intero, senza alcuna perdita, sebbene questa parte non sia che un punto. L’estrema sventura, che è insieme dolore fisico, smarrimento dell’anima e degradazione sociale, costituisce questo chiodo. La punta è applicata sul centro stesso dell’anima. La testa del chiodo è l’intera necessità diffusa attraverso la totalità dello spazio e del tempo. La sventura è una meraviglia della tecnica divina. E’ un dispositivo semplice e ingegnoso che riesce a infliggere nell’anima di una creatura quell’immensa forza cieca, bruta e fredda. La distanza infinita che separa dio dalla creatura converge tutt’intera in un unico punto per trafiggere un’anima al suo centro. L’uomo al quale accada una cosa simile non ha parte alcuna nell’operazione. Si dibatte come una farfalla che venga appuntata viva in un album. Ma attraverso l’orrore può persistere nella volontà di amare” (Simone Weil, Attesa di Dio, trad. it. di Giancarlo Gaeta, Adelphi, Milano 2008, pp. 187-188)

  1. La conoscenza attraverso l’attenzione:

L’attenzione è, secondo Weil, la chiave per conoscere Dio. Non si tratta di un’attenzione ordinaria, ma di un’apertura totale e senza riserve alla realtà. Solo attraverso un’attenzione profonda e concentrata, scevra da pregiudizi e distrazioni, l’individuo può sperare di entrare in contatto con il regno della verità, con la volontà di Dio..

“Quando non si mangia l’organismo digerisce la propria carne e la trasforma in energia” (enunciato terribile, evocante un processo di autodivoramento!) ; “Ma quando si è totalmente privi di energia terrestre si muore. Finché il mio cuore, i miei polmoni, le mie membra non sono completamente paralizzati, è la prova sperimentale che sulla pietra c’è una goccia d’acqua per il grano celeste.  Giungere a dargli da bere anche se questo fa morire di sfinimento la carne. Importa solo che la carne e il sangue si dissecchino prima dello stelo divino, nient’altro che questo”. Ma c’è un momento in cui la fame, urlata, di “pane di vita” e il divino nutrimento agognato e finalmente ricevuto, fanno virare l’incredulità in certezza:  “Dobbiamo solo attendere e chiamare. Non chiamare qualcuno dato che non sappiamo ancora se c’è qualcuno. Dobbiamo gridare che abbiamo fame e che vogliamo del pane. Grideremo più o meno a lungo, ma finalmente saremo nutriti e allora non soltanto crederemo ma sapremo che esiste veramente del pane. Quando ne abbiamo mangiato, quale prova più sicura potremmo desiderare. Fintanto che non ne abbiamo mangiato non è necessario e neppure utile credere nel pane: L’essenziale è sapere che si ha fame. Non è una credenza questa, è una conoscenza assolutamente certa che non può essere oscurata che dalla menzogna. Tutti coloro che credono che vi è o vi sarà un nutrimento quaggiù mentono”. Si arriva alla fede, dunque, attraverso l’incredulità e non attraverso “le credenze che colmano i vuoti, che addolciscono le amarezze” , non attraverso le pratiche consolatorie. In questo senso “l’ateismo è una purificazione”.  (Simone Weil, Riflessioni senz’ordine sull’amore di Dio, trad. it. di Giulia Bissaca e Alfredo Cattabiani, Borla, Roma 1979, p. 113)

  1. La dimensione sociale della fede:

Weil affianca fede ed opere, consapevole che l’incontro con Dio si manifesta nella compassione e nella giustizia. La preoccupazione per gli altri diventa il modo tangibile per vivere la fede, “salvando un pezzettino di Dio negli altri”, come avrebbe detto Etty Hillesum, perché ciò che abbiamo sono le nostre azioni quotidiane messe a servizio del bene di chi abbiamo vicino. Il Cristo a cui guarda la Weil non ha niente a che vedere con organizzazioni di volontariato o strutture assistenziali gerarchiche (“L’amore per ciò che è fuori del cristianesimo visibile mi tiene fuori della chiesa”, scrive all’amico padre Perrin): si tratta di un messaggio povero, ridotto all’osso di un legno da cui pende il corpo di un povero crocifisso sanguinante. L’adesione a esso richiede, come spesso hanno avvertito i mistici, la rinuncia radicale e l’annullamento di sé. Ma che altro sono questi atteggiamenti se non la realizzazione radicale dell’amore cristiano? Scrive la Weil: “Noi siamo la crocifissione di Dio. La mia esistenza crocifigge Dio. Come noi amiamo un dolore intollerabile perché Dio ce lo manda, così è di questo stesso amore, trasposto dall’altro lato del cielo, che Dio ci ama. L’amore di Dio per noi è passione. Come potrebbe il bene amare il male senza soffrire?.., La crocifissione di Dio è cosa eterna… Se nella comunione il dolore di Dio è gioia per noi, non si deve pensare che il nostro dolore, quando è pienamente accettato, è gioia in Dio? Ma perché esso diventi gioia in Dio, bisogna che sia accettato nella totalità e integrità della sua amarezza”.Per Simone dolore e amore si incontrano perfettamente in Cristo. Il Cristianesimo in questo si presenta come religione pura, nuda e cruda, ma anche dura, di una durezza simile a quella di un diamante tagliente, di una lama affilata che cura chirurgicamente l’animo umano ferendolo nel profondo.

  1. La condizione umana e la sofferenza:

Simone Weil affronta il problema della sofferenza umana sottolineando che Dio partecipa attivamente alla sofferenza dell’umanità. La sua visione implica una sorta di coinvolgimento divino che rispetta la libertà umana consentendone la crescita spirituale attraverso l’esperienza della sofferenza.

Nel 1935, in un villaggio povero di pescatori portoghesi, Simone assiste a una festa caratterizzata dalla struggente malinconia di alcuni canti intonati da un coro di donne. In quel momento si radica nel suo cuore una convinzione tanto forte quanto drammatica: “Ho avuto all’improvviso la certezza che il cristianesimo è per eccellenza la religione degli schiavi, che gli schiavi non possono non aderirvi, e io con loro”. Il Cristo di Simone Weil è il servo di YHWH, che si fa carico del dolore dell’intera umanità ed è l’unico in grado di rispondere agli interrogativi più tragici che sgorgano dal cuore dell’uomo proprio in virtù del fatto che ha condiviso la pesantezza dell’umana condizione. La Weil si sente spinta verso una mistica dell’abbandono, del distacco e della debolezza, mai cercando per sé alcuna consolazione: preferisce sperimentare la sofferenza fino a verificare che proprio nel momento in cui si ha la sensazione di toccare il fondo dell’annientamento e della disperazione è possibile incontrare una salvezza che non assomiglia a nessuna gloria o a nessun un trionfo: “Solo per chi ha conosciuto anche solo per un minuto la pura gioia e di conseguenza il sapore della bellezza del mondo (perché sono la stessa cosa), solo per quest’uomo l’infelicità è qualcosa di straziante. Nello stesso tempo solo costui non ha meritato questo castigo. Ma anche per lui non si tratta di un castigo: è Dio stesso che gli prende la mano e gliela stringe un po’ forte. Infatti, se egli rimane fedele, troverà in fondo alle sue grida la perla del silenzio di Dio… Le creature parlano con dei suoni. La parola di Dio è silenzio. La segreta parola d’amore di Dio non può essere altro che il silenzio. Cristo è il silenzio di Dio. Come non c’è albero simile alla croce, così non c’è un’armonia come il silenzio di Dio… La nostra anima fa continuamente del rumore, ma c’è un punto in lei che è silenzio e che noi non sentiamo mai. Quando il silenzio di Dio entra nella nostra anima, la trafigge e viene a raggiungere quel silenzio che è segretamente presente in noi, allora noi abbiamo in Dio il nostro tesoro e il nostro cuore”.

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